Donne e uomini che siete qui, compagne
e compagni, la vostra presenza oggi è la risposta più
efficace alla follia del terrorismo, è la risposta più
forte in difesa della democrazia e delle sue regole. Il
terrorismo è tornato a colpire. Lo ha fatto, come in
altre occasioni, scegliendo con cura il suo bersaglio. Il
professor Marco Biagi era un uomo di cultura, che aveva
messo il suo sapere al servizio dello Stato, che lavorava
per definire merito e regole dei rapporti sociali. Lo
hanno ucciso, come prima avevano fatto con Massimo D’Antona,
con il professor Tarantelli, con il professor Ruffilli.
A noi non sfugge che la follia del
terrorista cerca sempre la componente simbolica. Nei loro
atti criminosi il simbolo vale, trasferisce messaggi;
nella simbologia è evidente anche l’attacco alle
politiche di coesione, al loro valore in questa società:
si vuole intimidire chi svolge la propria preziosa
funzione di consulenza, dunque svolge una delicata
funzione sociale.
Il terrorismo però interviene per la
prima volta direttamente nelle relazioni sociali, punta a
stravolgerle, a dettare lui l’agenda di merito e i
tempi: questa novità terribile non ci sfugge e non deve
sfuggire a nessuno. Le relazioni sociali tra parti che
rappresentano interessi diversi sono una componente vitale
della democrazia formale e di quella sostanziale. Ecco
perché sconfiggere il terrorismo è necessità e compito
di tutti, ancor più di sempre, di tutti i democratici, di
chi ha a riferimento lo Stato che la lotta di Resistenza e
di Liberazione ha consegnato agli italiani. Non deve
sfuggire a nessuno però l’altra novità della follia
terroristica: l’omicidio è stato consumato mentre
cresceva la mobilitazione dei lavoratori e dei cittadini a
sostegno delle loro legittime e vitali esigenze, mentre
cresceva un movimento vasto, determinato, che agisce
secondo le più consolidate regole e prassi della sua
essenza democratica. L’omicidio avviene a poche ore da
questa manifestazione. Penso che l’obiettivo dei
terroristi sia più subdolo e profondo, ma non posso qui
ignorare la circostanza e la scelta dei tempi.
Agli inquirenti e alle forze dell’ordine
spetta ora fare luce piena su quanto è accaduto,
catturare i criminali, fare luce sulle tante zone d’ombra,
sulla solitudine nella quale è stata lasciata una persona
minacciata.
La nostra risposta è quella di sempre,
democratica, forte: siete voi la nostra risposta.
Partecipiamo naturalmente al dolore della famiglia. Ma nel
contempo metteremo in atto tutto ciò che una forza di
rappresentanza sociale come la Cgil può fare per
contrastare con fermezza ogni violenza, non avendo mai
accettato né la violenza praticata, né quella
teorizzata, nemmeno quella che gli altri apparentemente
sopportavano. Nell’esercizio delle nostre funzioni
saremo come sempre fermi, non accetteremo condizionamenti.
Affermare, come è stato fatto, che la
violenza dei terroristi è il frutto di un clima di odio
creatosi nella società italiana non è soltanto una tesi
priva di qualsiasi fondamento, ma è anche il goffo
tentativo di demonizzare la libertà di critica e la
naturale dialettica sociale. Poco importa se quel
tentativo è rivolto a cittadini, a intellettuali, a
sindacati. E, per la nostra parte, chi ci accusa di essere
componente di questo clima ci offende, offende la nostra
storia e l’intelligenza dei cittadini italiani. Quella
storia di donne e di uomini che hanno lottato a viso
aperto contro il terrorismo, sempre.
Una storia così presente nella
memoria, nella cultura, negli occhi di tutti da non avere
bisogno, oggi, di nessuna parola da parte mia. È una
storia che nessuno può ignorare o negare. Così come non
ci soffermeremo più di un istante per chiedere a loro se
possono tutti affermare la stessa cosa verso il
terrorismo, di qualunque matrice ideologica.
Dunque risponderemo sostenendo e
difendendo il difficile lavoro degli inquirenti, a partire
da quello dei magistrati, esposti ancora una volta e
ancora di più anche in questo difficile e pericoloso
compito. Saremo dalla parte delle forze dell’ordine.
Faremo scelte responsabili in ogni atto quotidiano del
vivere civile e delle nostre funzioni. Per queste ragioni
manifestiamo oggi e torneremo a farlo nella prossima
settimana in tutte le città italiane insieme a Cisl e
Uil.
Siamo convinti che nella conferma del
giudizio di merito su politiche, anche contingenti, non
condivise e nelle iniziative di lotta a sostegno delle
nostre rivendicazioni c’è la risposta giusta al
terrorismo. Perché così si ripristina la normalità e
non si subisce l’effetto dei violenti e degli omicidi.
Sono intatte le ragioni che ci avevano portato a chiedervi
di venire oggi a Roma. Quella di oggi non è la giornata
di festa che avevamo previsto. Abbiamo mutato i nostri
obiettivi: abbiamo messo, ancora una volta, al centro
della risposta di milioni di persone la lotta contro il
terrorismo, per la democrazia.
E lo facciamo con la compostezza, la
fermezza, la serenità che qui è dimostrata da voi.
Guardino queste piazze coloro che hanno sollevato non
critiche di merito ma giudizi ingiuriosi verso di noi.
Staremo in campo nei prossimi giorni
con le nostre valutazioni sullo stato di questo paese,
sull’andamento della sua economia, un’economia che ha
subìto un brusco rallentamento, più forte della
congiuntura internazionale: si rischia l'interruzione del
ciclo positivo innescato negli anni passati dal
risanamento. L’economia era tornata a crescere, il
lavoro era diventato un obiettivo raggiungibile per tante
ragazze e ragazzi, anche nel Mezzogiorno. Il rallentamento
ci preoccupa: siamo convinti che una parte consistente
delle difficoltà dell’oggi siano da attribuire a
politiche inefficaci per sostenere la crescita e ancor
più inefficaci per rovesciare il suo rallentamento.
Abbiamo criticato per tempo interventi aselettivi su un’offerta
priva di qualità. Abbiamo criticato scelte che
deprimevano la domanda. Abbiamo detto senza infingimenti
la nostra contrarietà alla scelta del modello
neoliberista che questo governo ha portato a Barcellona,
al confronto con le altre forze economiche, sociali e
politiche dell’Europa, in opposizione allo sviluppo dell’economia
della conoscenza che era stato individuato in precedenza a
Lisbona.
Noi ci siamo sempre battuti senza
incertezze perché questo paese entrasse nell’Europa nel
gruppo di testa, perché facesse parte di chi avrebbe
dotato l’Europa di una moneta; così oggi insistiamo
perché si arrivi rapidamente a una Costituzione dell’Europa,
con una carta dei diritti integrata alla stessa. L’Europa
deve allargarsi, l’allargamento deve dare possibilità a
milioni di cittadini di avere disponibili protezioni
sociali, diritti, di riaffermare cioè in concreto quel
modello sociale che storicamente l’Europa ha
consolidato, perché questo modello diventi un punto di
riferimento in tutte le sue componenti anche nella sfida
della globalizzazione. Regolare il mercato, offrire
certezze a chi vuole un futuro più sereno non è soltanto
necessario, è possibile, se la politica lo vuole.
E qui, oggi, da noi – in coerenza con
il modello che era stato definito a Lisbona, quello di una
crescita che guarda alla qualità di quel che si produce,
di come lo si produce, che considera l’innovazione un
motore importante, valorizza le persone e i loro saperi
– in coerenza con quel quadro di riferimento è
possibile dare impulso al sistema produttivo, renderlo
competitivo ancorandolo un’idea alta di qualità.
Bisogna orientare di conseguenza gli
interventi verso il Mezzogiorno, creando in loco le
condizioni di ambiente economico e sociale per attrarre
investimenti. Come si fa a non considerare il Mezzogiorno
una delle priorità della politica economica di un paese
come il nostro? Ma se si guarda ai provvedimenti del
governo, quelli varati nei primi cento giorni e quelli
contenuti nella legge finanziaria si scopre che non c’è
traccia di intenzioni efficaci e positive in quelle
politiche; mentre si asseconda la richiesta delle imprese
di sostegno a un modello di competizione bassa, destinato
a portare il sistema produttivo italiano in un’area
marginale nel mercato e inevitabilmente a produrre rotture
sociali. È così perché quando non si rende disponibile
qualità, quando non si orienta la propria attività verso
le esigenze fondamentali delle stesse imprese e invece si
risponde con scelte di collateralismo antico alla parte
che ha costruito le sue fortune lucrando sulla
svalutazione e sui cambi flessibili, si costringe il paese
ad arretrare.
Questa è la prima ragione della nostra
contrarietà. Noi proponiamo una sfida competitiva che
abbia al suo centro la qualità, l’innovazione, la
valorizzazione della persona. Loro ci rispondono
affacciando sempre ed esclusivamente ipotesi che portano
alla riduzione dei costi, che aggrediscono e
ridimensionano tutto ciò che ha un costo: le prestazioni
sociali, le tutele, i diritti. Abbiamo detto di non
condividere questa impostazione, l’abbiamo detto in
esplicito.
Così come abbiamo detto e dobbiamo
dire anche alla politica, ai partiti, che siamo
preoccupati per la scelta delle deleghe. Non mettiamo in
discussione la legittimità di uno strumento previsto dal
nostro ordinamento. No, è un’altra la cosa che ci
preoccupa. Il fatto che nello stesso arco di tempo si
utilizzino deleghe su temi come le normative ambientali,
la scuola, il fisco, la previdenza, il mercato del lavoro
e i diritti: la delega è legittima ma esautora e
impoverisce il confronto. Occorre riflettere su questo
metodo anche nella gestione dei rapporti tra le forze
politiche e non soltanto tra quelle sociali.
E poi ci sono le nostre contrarietà di
merito, non solo quelle legate alla forma, alle modalità
(ma spesso sapete come la forma sia sostanza). Abbiamo
detto della nostra contrarietà alle intenzioni del
governo in materia di scuola: il ricorso alla delega sui
temi dell’istruzione e della formazione è sorprendente.
Questo governo – nessuno di noi l’ha dimenticato –
appena insediato ha sospeso quella riforma dei cicli che
il governo precedente aveva varato anche con il nostro
consenso. L’ha sospesa affermando che quella riforma era
poco conosciuta, poco discussa e dunque poco condivisa dal
mondo della scuola. Ha per questo annunciato il
coinvolgimento di tutta la società civile, ma s’è
capito subito quale sarebbe stata la realtà: quelle
migliaia di studenti che hanno nei mesi scorsi circondato
e isolato gli Stati generali del ministro non hanno
soltanto svelato la debolezza di un disegno tutto
mediatico; hanno resa chiara la scelta del governo.
Una scelta regressiva sul terreno della
qualità dell’istruzione e della formazione, che
allontana il nostro paese dall’Europa, che mette in
discussione un modello di sviluppo fondato sulla qualità.
Non sorprende allora il taglio delle risorse per l’istruzione,
per la formazione, per la ricerca. Non sorprende che in
nessuna delega si trovi traccia della formazione continua
come diritto della persona ad apprendere per tutta la
vita; che non si trovi traccia dell’educazione degli
adulti come opportunità nel lavoro e oltre il lavoro per
arricchire la propria vita.
È evidente ai nostri occhi il disegno
di indebolire, impoverire e rendere marginale il ruolo
della scuola pubblica in questo paese. Una scuola pubblica
più debole può facilmente arrendersi alla logica del
mercato e persino a una visione cinica della vita: i più
forti possono proseguire negli studi, i più deboli devono
essere incanalati in una formazione professionale di
seconda serie, in quella precoce penalizzazione a tredici
anni c’è la pura e cinica registrazione dei destini
sociali di ciascuno.
Ma è questa la prospettiva di vita che
i padri possono indicare ai loro figli? Noi non l’abbiamo
mai pensato. E per questa ragione abbiamo indicato nella
sostanza dei provvedimenti precedenti un merito condiviso
e osteggiamo le scelte che sono in campo con quella
delega.
E che dire delle decisioni in materia
di fisco? Si affaccia l’idea di superare la
progressività e dunque di ledere il principio che chi ha
di più paga di più: una delle ragioni fondamentali della
solidarietà; si affaccia un’ipotesi di redistribuzione
iniqua. Si dice ai cittadini: vi faremo pagare meno tasse,
senza dire né come né perché, ma non gli dice che il
calo del gettito priverà il welfare di risorse
fondamentali: gli si nega la verità e si spingono i
cittadini e le famiglie verso la privatizzazione di
prestazioni che sono fondamentali per loro. Basterebbe
guardare a quello che già è capitato per la sanità,
dopo che progressivamente è stato erosa e distrutta una
riforma importante che aveva trovato nella sua costruzione
la nostra partecipazione e il nostro consenso.
E per quanto riguarda le pensioni, la
decontribuzione immaginata mette in crisi la previdenza
che è stata riformata qualche anno fa con senso di
responsabilità e ancora una volta con la partecipazione
del sindacato. Il venir meno di quei contributi provoca un
danno per i giovani e per gli anziani: i giovani non
avranno più la pensione attesa; gli anziani si troveranno
di fronte a istituti previdenziali incapaci, per mancanza
di risorse, di garantir loro il reddito attuale e i
rendimenti di oggi.
E poi, il mercato del lavoro e i
diritti, così come sono stati scritti nella delega: c’è
una riduzione delle regole che inevitabilmente produce
conflitto e non efficienza del sistema produttivo. È
esplicita in quella delega l’intenzione di ridurre tutte
le tutele collettive, per affermare, si dice, il principio
della libertà. Ma una persona più sola, priva di
tutele legislative e contrattuali non è più libera: è
solo più debole e dunque può essere condizionata.
La nostra priorità è un’altra: noi
pensiamo all’estensione dei diritti, alla loro
modulazione per i nuovi lavori, per quelle tante ragazze e
quei tanti ragazzi che oggi non hanno né tutele né
diritti riconosciuti. Pensiamo a una riforma anche delle
tutele, a partire dagli ammortizzatori sociali,
intrecciandoli con la formazione in modo tale da dare a
tutti la possibilità di restare nel mercato del lavoro,
di rientrare quando vengono espulsi per una ragione
oggettiva.
Pensiamo a un sistema universale di
diritti, che valga per chi è nato qui e per chi, essendo
nato altrove, decide liberamente di venire a vivere e
lavorare qui, con l’idea dell’universalità dei
diritti, con l’idea dell’esercizio solidale.
Ma – ci siamo chiesti – è
credibile un sindacato che si batte per queste priorità
se nel contempo accetta di togliere o di alterare diritti
antichi e fondamentali per altre persone? La risposta vi
è nota. È no. Si perde la propria credibilità. Non si
può affermare di voler dare ai giovani – come noi
pensiamo indispensabile – dei diritti universali e nel
contempo accettare l’idea di toglierli ai padri.
Ci sono note le caratteristiche delle
proposte che il governo ha affacciato anche a proposito
della modifica dell’articolo 18. Non c’è sfuggito
nulla, neanche gli aspetti più subdoli e maliziosi.
Sappiamo benissimo che quel provvedimento agisce in parte
sulle persone che hanno già un’occupazione e un sistema
di diritti consolidato. E agisce in maniera ancor più
rilevante su coloro che vorrebbero avere dei diritti e
oggi ne sono privi, oppure su coloro che entreranno
successivamente nel mercato del lavoro.
A chi dice quotidianamente alle persone
che lavorano, che sono tutelate, che hanno diritti:
"Ma di che cosa ti preoccupi, non ci stiamo occupando
di te, vogliamo agire per rendere possibile un lavoro per
i giovani", ebbene, a chi affaccia questa idea noi
rispondiamo così: "Non c’è nessun rapporto, non c’è
mai stato, tra la possibilità per un’impresa di
licenziare senza una ragione e la possibilità per la
stessa impresa di assumere delle persone". E
aggiungiamo: "Ma qual è la prospettiva che offrite
alle persone più deboli?" Pensate alle donne e agli
uomini che lavorano in attività sommerse, prive di tutele
legislative e di tutele contrattuali. Quando quell’azienda
emerge e finalmente per queste persone si apre la
prospettiva della normalità, che cosa gli prospettano? La
possibilità di essere licenziati senza giustificato
motivo. Come si fa a sostenere che questa sia una
prospettiva positiva, tale da stimolare anche
comportamenti virtuosi, in grado di favorire l’emersione?
Sappiamo che la loro intenzione è
subdola. Quello che loro prospettano è un patto
neocorporativo a quelli che sono nel mercato del lavoro:
"A voi non tocca ricaduta immediata". Lo dicono
per le pensioni, ma è facile smentire anche questa
affermazione. Lo dicono per i diritti. Perché lo fanno?
Chiedono consenso a chi è garantito a discapito di chi
vorrebbe avere un lavoro e diritti riconosciuti.
Perché la loro cultura – la loro,
non la nostra – è quella che ha a riferimento il
capitalismo compassionevole, la filantropia. Noi siamo
figli dell’idea della solidarietà. Nella nostra storia
chi lavorava si batteva per acquisire diritti e lasciarli
alle generazioni che sarebbero venute dopo. Loro
propongono l’esatto opposto: chiedono silenzio a chi
lavora per negare diritti a chi entrerà nel mercato del
lavoro successivamente.
Siamo stati criticati perché, a
proposito della nostra difesa dell’articolo18, della sua
efficacia, abbiamo utilizzato l’espressione
"dignità negata". Non l’abbiamo mai fatto a
caso: né chi vi parla e neppure nessuno delle donne e
degli uomini della Cgil. L’abbiamo fatto perché non si
tratta di chiedere a una persona di rinunciare a una
condizione materiale. Non si tratta di chiedere a una
persona di rinviare nel tempo il soddisfacimento di un
bisogno. Si tratta di chiedere a una persona di essere
privata del reddito e del lavoro senza una ragione, dunque
di provvedimenti che ledono la dignità della persona.
Nel 1966, esattamente il 27 aprile, il
compagno Ugo Spagnoli pronunciava il suo discorso nel
dibattito parlamentare a conclusione di una lunghissima,
difficile, delicata discussione che portò all’introduzione
nell’ordinamento legislativo italiano del vincolo alla
giusta causa nei licenziamenti. Concludeva così il suo
intervento il compagno Spagnoli: "Tutto ciò che ci
si chiede nel momento in cui facciamo questa legge, tutto
ciò che si è chiesto a noi per tanti anni senza avere
alcuna risposta, è la tutela di quella dignità umana che
la dottrina cattolica considera principio e fondamento
ontologico di ogni valore umano, la più alta prerogativa
di ogni persona umana, e che per noi è il fondamento di
una concezione dell’uomo che vogliamo ricondurre a se
stesso, liberandolo da ogni alienazione e da ogni
sfruttamento".
Io non trovo parole migliori per dire
oggi, a distanza di oltre 35 anni, delle nostre ragioni
per difendere quella dignità, quella che passa dall’affermazione
dei diritti del cittadino nei luoghi di lavoro, quella che
supera la rottura di ogni divario tra lo stato di
cittadino e quello di lavoratore. La rivendicazione di un
diritto che è sancito dalla nostra Costituzione. Noi ci
batteremo perché si estendano questi diritti fondamentali
dai padri verso i figli.
Il nostro obiettivo in questa lotta è
quello di sempre, quello che un sindacato ha storicamente
davanti a sé: il nostro obiettivo è un accordo che sia
positivo per le persone che rappresentiamo. Con questo
spirito noi ci presentiamo sempre alle trattative, agli
incontri, ai confronti negoziali. Con lo stesso spirito,
quando non ci sono le condizioni e si interrompe una
trattativa, rispondiamo con la lotta. Perché è in questa
dinamica la sostanza della funzione più alta del
sindacalismo confederale italiano.
Un sindacalismo che si fa carico dei
problemi di molti, li rappresenta, li media con i suoi
strumenti. Un sindacalismo che per questa ragione non ha
paura dell’accordo come non ha mai avuto paura della
trattativa. E così non ha paura di ricorrere allo
strumento dello sciopero generale come faremo nei prossimi
giorni. Le nostre condizioni, le nostre richieste sono
nette ed esplicite. Se si creeranno le condizioni per il
negoziato le preciseremo ulteriormente.
Ci presenteremo agli incontri dei
prossimi giorni riconfermando il nostro interesse a una
discussione concreta che produca cambiamenti positivi per
le persone che rappresentiamo. Non troviamo elementi
condivisibili in molte delle politiche che abbiamo
contestato. Quel confronto ha una condizione di partenza:
il governo deve sapere – ed è atto di responsabilità
riconfermare anche oggi qui la nostra scelta – che un
confronto, una trattativa sui temi del mercato del lavoro
può essere iniziato soltanto se vengono stralciate le
norme che cancellano i diritti legati all’articolo 18.
La vostra presenza oggi è
straordinaria. Sono qui tantissimi giovani, lavoratrici,
lavoratori, pensionati, tanti cittadini che non hanno un
rapporto diretto con noi, non sono rappresentati dal
sindacato. Ma sono persone che conoscono il valore dei
diritti, sanno quanto sia importante in una società avere
disponibili politiche di protezione, di tutela, che
promuovano sviluppo e occupazione, avere diritti
universali, indivisibili, come sono nella Carta dei
diritti europei. I diritti sono sostanza della libertà,
della coesione sociale e dunque della democrazia. Perciò
la democrazia si difende anche come facciano noi oggi,
difendendo i diritti e la loro universalità.
Ai tanti che sono qui, diversi da noi,
agli intellettuali, dico: "Non vi preoccupate se vi
aggrediscono. Rispondete con fermezza, come avete
fatto". Ai tanti giovani, alle ragazze e ai ragazzi
dei movimenti della pace, a coloro che vogliono regole
nella globalizzazione, a quelli che hanno a cuore,come
tanti altri, le tematiche ambientali, dico:
"Continuate a rappresentare le vostre idee e le
vostre istanze. Non fatevi intimidire. Dalla Cgil avrete
sempre attenzione e rispetto. Non fatevi affascinare dall’idea
di rappresentarvi autonomamente in politica. Stimolate i
partiti, costringeteli a guardare a voi, alle vostre
istanze".
Tonino Guerra, poeta romagnolo che ci
è caro, ha voluto anche in questa occasione indicarci
delle belle parole per la manifestazione di oggi. Le ha
prese a prestito da un antico, sconosciuto, anonimo poeta
indiano che scrisse: "Il corpo del povero cadrebbe
subito in pezzi, se non fosse legato ben stretto dal filo
dei sogni". Nei nostri sogni c’è un paese moderno
e civile, con una democrazia forte e una società più
giusta. Con il vostro coraggio, con la vostra passione
civile, quella che ci dà forza, sono sicuro che li
realizzeremo.
(23 marzo 2002) |